Francesco Petrarca, Familiari V 3
A Giovanni Colonna cardinale.
Sul suo viaggio fino a Napoli e sulle mostruosità della corte napoletana.
Che io rompessi la parola data, a te è stato utile e a me quasi necessario. Avevo promesso che avrei viaggiato per mare, senz’altra ragione se non che normalmente si ha la convinzione che si vada più spediti e più rapidi per mare che per terra, mi ero imbarcato presso Nizza, che è la prima delle città italiane da occidente, ed ero giunto al porto di Monaco a cielo ormai stellato. Mi arrabbiavo in silenzio. Il giorno dopo rimanemmo lì controvoglia, avendo spesso tentato di andarcene. L’indomani, con il tempo incerto, salpammo e, sballottati tutto il giorno dai flutti, a stento giungemmo a Porto Maurizio a notte fonda. E così non si poté entrare nel castello; sorteggiai un alloggio sulla costa, un giaciglio da marinai, così che la cena la condì la fame e il sonno lo dovetti alla stanchezza. Lì mi sdegnai ancora di più e conobbi gli scherzi del mare: in somma, dopo che varie idee m’ebbero agitato la notte, sull’aurora decisi di preferire le durezze terrestri alla schiavitù del mare. E così, reimbarcata sulla nave la servitù e tutti i bagagli, sulla spiaggia rimasi io accompagnato da uno solo; e la fortuna fu favorevole alla mia idea. Fra gli scogli della Liguria, non so per quale combinazione, c’erano in vendita dei cavalli teutoni, energici e vigorosi; e dopo averli comperati in tutta fretta, feci il percorso stabilito, non tuttavia del tutto esente dal disagio della navigazione. C’è attualmente fra i Pisani e il signore di Milano un’enorme guerra, combattuta, come vedi, più per la superbia degli animi che per i confini delle terre. L’Appennino infatti ha ampiamente separato le zone confinanti, così che si disprezza l’antica frontiera del Po; ma la superbia non conosce freno, e non c’è termine in cui il desiderio possa essere contenuto. – entrambi gli eserciti si erano fermati non lontano da Avenza, perché il tiranno opprimeva Motrone e i Pisani di contro lo difendevano con tutte le loro forze- sono stato costretto a mettermi in viaggio per mare presso Lerici; e dopo aver superato Corvo, un enorme scoglio chiamato così per il suo colore, e la Rupe bianca e le foci della Macra e Luni, un tempo famosa e potente, ora un nudo e vuoto nome, sbarcato a notte fonda proprio presso Motrone, nell’accampamento dei Pisani, feci il resto del viaggio a terra senza trovare particolari ostacoli. Non sto a ridirti dove ho cenato e dormito, cosa ho visto o sentito in questo o in quel posto; mi affretto alla conclusione. Attraverso Pisa, lasciata sulla sinistra Firenze, arrivai e Siena e da lì a Perugia, da lì a Todi, dove sono stato accolto con molta gioia dai tuoi amici di Chiaravalle; e per Narni sotto la loro guida sono entrato a Roma il quarto giorno dalle none di Ottobre; ed era già notte avanzata. Così in quel momento la gran fretta mi fece viaggiare di notte. Mi parve tuttavia opportuno visitare il tuo magnanimo padre prima di mettermi a dormire. Buon Dio, che uomo maestoso, che voce, che fronte, che aspetto, che portamento, che forza d’animo in quell’età, che vigore fisico! Mi è sembrato di star a guardare Giulio Cesare o l’Africano, se non per il fatto che costui è molto più longevo di entrambi; e tuttavia in apparenza è praticamente lo stesso di sette anni fa, quando a Roma lo congedai per la seconda volta, o di dodici anni fa, quando lo vidi per la prima volta presso Avignone sul Rodano. Cosa strana e quasi incredibile: un solo uomo, Roma senescente, non invecchia. Lì con affetto paterno mi raccontò un poco di te e della tua vita – infatti l’avevo trovato seminudo e già sul punto di andare a dormire; rimandammo il resto al giorno dopo. Passai con lui quel giorno da mattina a sera, e nemmeno un’ora passò in silenzio; ma veniamo al resto. Si rallegrò enormemente del mio arrivo, sperando, come diceva, che grazie alla mia industria per i vostri amici sarebbe giunta la fine della prigionia e dell’infelicità; e mi dolgo che la speranza del vecchio sia falsa.
Per non farla troppo lunga, uscito da Roma arrivai a Napoli, raggiunsi le regine e presi parte al loro consiglio. Che vergogna, quale mostruosità! Dio porti via dal cielo italiano questa specie di peste! pensavo che Cristo fosse disprezzato a Menfi, a Babilonia e a La Mecca; ti compatisco, mia nobile Partenope; sei veramente diventata una di queste; nessuna devozione, nessuna sincerità, nessuna lealtà. Ho visto un orrendo animale a tre zampe, coi piedi nudi, la testa scoperta, superbo nella sua povertà, marcio di piaceri; un omuncolo depilato e rubicondo, dalle natiche obese, a mala pena coperto da un misero mantello, che scopriva di proposito buona parte del corpo; e che così conciato, come dall’alto pulpito della propria santità, disprezzava con grandissima insolenza non solo i tuoi discorsi ma anche quelli del Romano Pontefice. E non mi sono stupito; porta con sé la superbia radicata nell’oro; molto infatti, come tutti sanno, discordano la sua cassa e la sua toga. E perché tu non ignori il suo maledetto nome, è detto Roberto. Al posto di quel serenissimo Roberto che poco fa fu re, che era stato il solo onore della nostra epoca, è sorto a eterno disonore questo Roberto. Ormai riterrò meno incredibile che dal midollo di un uomo sepolto possa nascere un serpente, dato che dalla tomba di un re è sgusciata via questa sorda serpe. O vergogna del cielo, chi mai ha invaso il tuo soglio, migliore dei re? Ma questo è l’affidamento che bisogna fare sulla fortuna: allo stesso modo essa muta le cose umane e le distrugge. Non bastò aver portato via il sole dal mondo, se non vi avesse recato sopra oscure tenebre, e se all’unico re defunto non ne fosse succeduto non un altro, benché inferiore di virtù, ma quest’atroce e spietata belva. È così che ci guardi, rettore degli astri? È questo il successore idoneo a un così grande re? È questo, dopo i Dionisii, Agatocle e Falaride – più osceno e, si può dire, più crudele di tutti questi – che restava destinato dal fato alla corte siciliana, per usare la parole di Macrobio “un ferocissimo usurpatore”? Che, per uno strano tipo di tirannide, non indossa il diadema, non la porpora, non l’armatura, ma uno squallido mantellaccio, e, come ho detto, senza essere del tutto avvolto in questo, ma solo a metà, e curvo non tanto per la vecchiaia, quanto per l’ipocrisia, e confidando non tanto nell’eloquio quanto nel silenzio e in una grave alterigia, se ne corre per le corti delle regine, e appoggiato su un bastone opprime gli umili, calpesta la giustizia, corrompe ogni diritto divino o umano. Che, come un nuovo Tifi o un altro Palinuro, regge il timone di una barca sballottata che presto, se punto mi credi, perirà in un enorme naufragio. Molti infatti sono così, e quasi tutti, tranne un solo presule della chiesa di Cavaillon, Filippo, che solo prende le parti della giustizia abbandonata. Ma cosa può fare, unico agnello in un così grande stuolo di lupi, cosa può fare se non fuggire quanto prima, se può, e riguadagnare il suo ovile? E credo che ci stia pensando. Ma per pietà del regno vacillante e in memoria dell’ultima preghiera del re è trattenuto come da un doppio ceppo. Intanto per quanto nella malevola schiera dei cortigiani si possa udire la voce sana solo di uno solo, che implora la fede di Dio e degli uomini, risuona contro le decisioni più inique e con la sua autorità rintuzza l’impudenza di molti eludendo con la saggezza la fortuna e caricandosi sulle spalle la pubblica rovina, che potrà differire, ma non mutare. E magari non coinvolgesse parimenti anche lui! La cosa infatti è andata tanto avanti che non nutro più nessuna speranza negli aiuti umani e specialmente nel Roberto superstite, che tanto per il primato nella perfidia che per la stranezza dell’abbigliamento ha meritato il primo posto e il titolo più alto fra i mostri della curia. Tu però non sarai privo di biasimo se non informerai il Romano Pontefice di ogni cosa di cui ti ho scritto largamente in un’altra lettere più segreta. Che, io credo, la saracena Susi o Damasco avrebbero accolto con più rispetto le esortazioni della sede apostolica della cristiana Napoli. E se il rispetto per sua santità non me lo impedisse, aggiungerei quel detto di ciceroniano “Paghiamo il fio a ragione; se non avessimo tollerato i crimini inpuniti di molti, mai tanta licenza sarebbe giunta in una persona sola”.
Ma io, mentre mi sforzo di mitigare l’irritazione e l’indignazione con parole sdegnose, temo di aver suscitato anche la tua di bile, la quale, se non servirà a nulla, e se da un lato la loro temerarietà, dall’altro la vostra pazienza non ci ha procurato nient’altro che indignazione, a cosa serve voler uguagliare colle parole lo squallore della realtà, cosa che non potrebbero fare nè Cicerone nè Demostene, e che, se per caso riuscisse, sarebbe uno sfoggio d’intelligenza dannoso solo al suo autore, per portar via più la tranquillità d’animo a chi scrive che l’impunità dai crimini ai colpevoli? Per cui è meglio porre fine a questo discorso.
Varcata la soglia della prigione – è detta Castel Capuano – tre o quattro volte, se non sbaglio, ho visto i tuoi amici, che non hanno nessuna speranza se non in te, poiché hanno provato a sufficienza che la loro rettitudine è loro dannosa; è certo è pericolosissimo sostenere una causa giusta davanti a un giudice ingiusto. Si aggiunge che nessun nemico è più accanito contro un infelice di quello che incede superbo delle spoglie della propria fortuna, poiché desidera togliere di mezzo chi potrebbe sempre avere l’occasione di chiedergliene conto. Così l’avidità è sempre vicina alla crudeltà, e si è osservato che da dove sarà venuta la iattura di un ingente patrimonio, da lì proviene anche il pericolo di morte. Dura è la sorte dell’uomo, che non può né essere povero in sicurezza, né diventare di nuovo ricco! Questo, se mai è accaduto a qualcuno, accade ora ai tuoi amici. Nessuno si è astenuto dal rubare parte del bottino dei prigionieri. Quando mai questi rapacissimi predoni appoggeranno la libertà o la salvezza altrui, che sembra unita alla propria povertà? Sarebbe stato più sicure non aver nulla. Ma così stanno le cose, con loro grave danno si sono procacciati feroci inimicizie. Li ho visti in ceppi; o che cosa indegna, o instabile e precipitosa ruota della fortuna! Ma come niente è più brutto di quella prigionia, così nulla è più elevato degli animi dei prigionieri; finché tu sei vivo, nutrono ottime speranze sulla loro sorte. Io non ho speranze, a meno che non intervenga qualche forza maggiore; se infatti aspettano la clemenza del consiglio, è finita: saranno consumati dallo squallore del carcere. La regina madre, un tempo moglie del re, ora la più infelice delle vedove, ne ha pietà, come dice, assicurando di non poter fare di più. Cleopatra col suo Tolomeo potrebbero aver pietà, se Potino e Achilla lo permettessero. Io vedo tutto questo; con che emozioni, non c’è nemmeno bisogno di dirlo. Ma che fare? bisogna aver pazienza, e benché certo del responso, tuttavia obbedendo ancora lo aspetto.
(Traduzione di Elia Perotti, classe VC)